- Il primo ministro giapponese vuole spendere il 2 per cento del Pil in difesa, rafforzare l’Esercito di autodifesa e partecipare al programma italo-britannico per il nuovo caccia di sesta generazione.
- Il rafforzamento militare di Tokyo risponde alle pressioni degli Usa, che spingono affinché il Giappone assuma un ruolo di maggior peso nel Pacifico, e alle minacce che arrivano da Cina e Corea del Nord.
- Sullo sfondo resta il dibattito sulla Costituzione, che vieta al Giappone di avere un esercito e di usare la guerra come metodo di risoluzione delle controversie internazionali. Una modifica costituzionale cambierebbe l’identità del paese
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Parata militare a Tokyo (Kiyoshi Ota/Pool Photo via AP)
La corsa al riarmo e all’aumento delle spese per la difesa ha contagiato anche il Pacifico, oltre al vecchio continente. Il primo ministro del Giappone, Fumio Kishida, ha proposto di aumentare i fondi destinati alla difesa, lasciandosi alle spalle anni di investimenti inferiori all’uno percento del Pil per raggiungere invece la soglia del due percento entro il 2027. La mossa di Kishida imporrebbe un cambio di passo significativo al Giappone, che si adeguerebbe così agli standard Nato in tema di investimenti in difesa. Nello specifico, il bilancio destinato a questo comparto passerebbe nei prossimi cinque anni dagli attuali 39.66 miliardi a circa 287 miliardi, confermando così la tendenza del governo di Tokyo ad investire sempre di più in difesa.
Le spese
Una parte di questi fondi sarà destinata al rafforzamento delle capacità militare del paese anche attraverso l’acquisto di nuovi armamenti, come emerso già dalle prima indiscrezioni di stampa. Secondo l’agenzia giapponese Kyodo, Tokyo sarebbe in trattativa con gli Usa l’acquisto di circa 500 missili da crociera Tomahawk, un prodotto che Washington difficilmente vende all’estero ma che rafforzerebbe le capacità di contrattacco e di difesa del Giappone. La scelta di dotarsi di questi missili dovrebbe trovare conferma nella nuova strategia di sicurezza che il governo si prepara ad approvare entro la fine dell’anno, un documento che segnerà il cambio di postura del paese in ambito militare. Le indiscrezioni sui Tomahawk fanno inoltre seguito alla scelta del Giappone di acquistare i missili per i suoi F-35 e di aumentare la gittata di quelli anti-nave realizzati dalle industrie nazionali.
Ma il Giappone è anche interessato a prendere parte a progetti internazionali di rilievo, aumentando così la sua collaborazione con partner diversi dagli Stati Uniti. Da qui l’interesse di Tokyo verso il caccia di sesta generazione Tempest, nella cui realizzazione sono già coinvolti la britannica BAE Systems e l’italiana Leonardo. L’idea è di fondere il progetto F-X portato avanti fino ad oggi dalla giapponese Mitsubishi Heavy Industries con quello del Tempest per abbattere i costi di produzione e aumentare il mercato di esportazione. Perché ciò sia possibile, però, il Giappone deve anche rivedere le norme nazionali relative all’export di materiale bellico per evitare che vengano imposti dei limiti particolarmente stringenti alla vendita del prossimo caccia di sesta generazione. Uno scenario che le aziende britannica e italiana non vogliono vedere realizzarsi.
Il pacifismo
A spingere il Giappone verso un aumento delle spese militari e verso un più ampio cambio di postura sono da una parte le pressioni che vengono dagli Stati Uniti, dall’altra il bisogno del governo di rispondere alla percepita minaccia di Corea del Nord e Cina, soprattutto a seguito della guerra in Ucraina. Gli Usa chiedono da tempo a Tokyo di assumere un ruolo di maggior peso nel Pacifico per contribuire attivamente alle politiche di difesa dell’area in chiave anti-cinese, ma perché ciò avvenga sarà necessario rivedere anche la Costituzione approvata dal paese dopo la fine della Seconda guerra mondiale. L’articolo 9 prevede che il paese non possa dotarsi di un esercito e che lo stato rinuncia al diritto di belligeranza e all’uso della forza quale metodo di risoluzione delle controversie internazionali.
L’adozione di una Costituzione “pacifista” non ha quindi permesso al governo giapponese di avere un esercito vero e proprio, il che ha reso il paese dipendente della protezione degli Usa. Tuttavia, nel corso degli anni i governi liberal-democratici sono riusciti a rafforzare le capacità militari del paese aggirando di fatto l’articolo 9. Il Giappone infatti è già al nono posto nella classifica mondiale per le spese militari, si è dotato di un Consiglio di sicurezza nazionale, che pianifica le strategie di sicurezza del paese, e di una Forza di auto-difesa equipaggiata con materiale difensivo. Tutte misure che i governi hanno adottato in mancanza di una maggioranza parlamentare sufficiente per cambiare la Costituzione, emendabile solo con il sostegno dei due terzi di entrambi i rami della Dieta.
Modificare l’articolo 9 però avrebbe importanti conseguenze sia sul piano internazionale che identitario. La rinuncia al pacifismo in Costituzione allarmerebbe la Cina e la Corea del Nord, già sempre più assertive nel Pacifico, e potrebbe rendere ancora più instabile l’area, ma imporrebbe anche un cambiamento decisivo nella costruzione dell’identità nazionale dei giapponesi e nel loro approccio tanto alla guerra quanto alla pace. Le prossime mosse del governo guidato da Kishida, a partire dall’aumento del budget e alla partecipazione al programma Tempest, saranno quindi decisive per il futuro del paese e per il suo posizionamento nello scacchiere internazionale in un momento in cui gli equilibri mondiali sono in fase di ridefinizione a causa del conflitto in Ucraina.
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