Se c’erano dubbi – e ce n’erano, soprattutto per le variegate posizioni nel suo esecutivo con verdi e liberali – sulla continuità tra la politica sulla Cina di Angela Merkel e quella di Olaf Scholz, dal 16 aprile scorso quei dubbi si sono dissipati. Con la sua recente visita in Cina infatti il cancelliere ha chiarito che dal rapporto simbiotico che si è instaurato negli ultimi decenni con la Cina la sua Germania non intende tornare indietro.

Quello del leader socialdemocratico è stato un viaggio lungo (13-16 aprile), con tappe a Chongqing (la megalopoli del sud-ovest dove ha visitato una fabbrica Bosch di celle a combustibile a idrogeno in joint-venture con Qingling Motors), Shanghai (dove ha tenuto un discorso sulla competizione agli studenti dell’Università Tongji) e infine Pechino (per incontrare il presidente Xi Jinping). Scholz si è portato dietro tre ministri (agricoltura, ambiente, trasporti) e i rappresentanti di una decina tra le maggiori compagnie tedesche, tra cui i vertici di BASF, Thyssenkrupp, Bayer, Siemens, Merck, BMW, Mercedes.

I temi (soprattutto economici) e il clima più che cordiale degli incontri con i cinesi hanno permesso al partito comunista di vendersi sui social la trasferta di Scholz come una conferma che la “locomotiva” dell’Unione europea sta con la Cina. «L’importanza del consolidamento e dello sviluppo delle relazioni Cina-Germania va ben oltre l’ambito bilaterale ed esercita una grande influenza sul continente eurasiatico e sul resto del mondo», ha tirato le somme Xi. E Scholz, secondo la trascrizione ufficiale di Berlino, ha sottolineato che «la Cina deve rimanere e resterà un partner commerciale chiave per la Germania e tutta l’Europa».

Le Monde: così divide l’Ue

Tutto ciò ha sollevato in Germania più di qualche perplessità sulla coerenza tra pensiero e azione della coalizione semaforo, dopo la pubblicazione meno di un anno fa della sua “Strategia sulla Cina”. Quel documento – che ha confermato la svolta della Commissione, che nel 2019 ha giudicato la Cina un “rivale sistemico”, oltre che un “partner” e un “concorrente”, e ha sostenuto la necessità della diversificazione delle catene di fornitura e della riduzione delle dipendenze dalla Cina prima del “de-risking” annunciato da Ursula von der Leyen – ad alcuni è parso carta straccia.

Il 17 aprile su Le Monde è uscito un editoriale intitolato Scholz in Cina: i pericoli di agire da soli. Sottotitolo: «Nell’invocare una concorrenza “aperta e leale” durante il suo viaggio in Cina, il cancelliere tedesco sembra non sapere che Pechino persegue una politica di potenza. Gli europei corrono il rischio di indebolirsi se non lavorano insieme».

Le differenze tra le politiche tedesche e quelle comunitarie (e, a maggior ragione, quelle degli Stati Uniti) sono apparse stridenti sulle auto elettriche, sulle quali è atteso il verdetto dell’inchiesta della Commissione sui “sussidi illegali” che Pechino avrebbe concesso al settore. Mentre tra tre mesi l’Ue potrebbe far scattare l’aumento (dal 10 al 25 per cento) dei relativi dazi d’importazione dalla Cina, durante la visita di Scholz Germania e Cina hanno sottoscritto un memorandum per la cooperazione sulla guida autonoma e connessa.

La seconda e la terza economia del pianeta – auspica il documento, sostenuto dall’associazione dei produttori tedeschi di auto VDA – collaboreranno su standard e regole comuni sulla gestione dei dati, con l’obiettivo primario di risparmiare risorse nelle fasi di sviluppo e produzione dei veicoli intelligenti.

La crisi a Berlino

Sono state la consapevolezza della necessità di cooperare con la Cina sui grandi dossier internazionali (cambiamento climatico, Ucraina, Medio Oriente, tra gli altri), e soprattutto le sue difficoltà interne a convincere Scholz a non deviare dal cammino dalla sua predecessora che, in 16 anni al comando, ha rafforzato i legami instaurati dai precedenti cancellieri tra quelle che sono diventate la seconda e la terza economia del pianeta. Secondo l’ultimo sondaggio FGW, Scholz ha un tasso d’approvazione di appena il 36 per cento (contro il 58 per cento contrario alle sue politiche), mentre la crescita continua a seguire un andamento altalenante, negativo nel 2023 (-0,3 per cento di Pil).

E così, più che favorire una parziale diversificazione della produzione tedesca lontano dalla Cina, Scholz è determinato soprattutto garantire il continuo accesso delle aziende e dei prodotti della Germania al mercato cinese.

Per capire quanto è importante per la Germania che le tenga le sue porte ben aperte basta ricordare che l’anno scorso la Cina si è confermata per l’ottava volta consecutiva il suo primo partner commerciale, e che la Germania è stato l’unico paese dell’Ue ad aver registrato un significativo avanzo (2,7 miliardi di euro) nell’interscambio col gigante asiatico.

«Non solo, gli investimenti esteri diretti della Germania in Cina nel 2023 hanno raggiunto il valore record di 11,9 miliardi di euro», ci ricorda Lorenzo Riccardi, eletto presidente della Camera di commercio italiana in Cina il 19 aprile scorso. Riccardi evidenzia che «c’è una stretta interconnessione tra il commercio e gli investimenti tedeschi e quelli italiani in Cina. Anche i settori economici d’interesse si sovrappongono, con i principali prodotti esportati dalla Germania rappresentati da automobili, componentistica e medicinali e quelli italiani da macchinari, abbigliamento, prodotti chimici, farmaceutici».

Secondo Riccardi «le visite dei leader europei in Cina e il recente forum di dialogo imprenditoriale Italia-Cina che si è tenuto a Verona con la partecipazione del ministro degli esteri, Antonio Tajani, e di quello del commercio, Wang Wentao, mostrano il grande interesse verso le relazioni economiche con Pechino e confermano che le prime economie europee – Germania, Francia e Italia – restano fortemente interessate al mercato cinese».

Tagli a casa

L’11 aprile scorso Volkswagen ha annunciato un investimento da 2,5 miliardi di euro per espandere il suo hub di innovazione e produzione di Hefei (capoluogo della provincia dello Anhui), che a partire dal 2026 sfornerà due modelli in partnership con la cinese XPeng. Il cuore del centro è la Volkswagen China Technology Co (Vctc), la più grande struttura di sviluppo della compagnia tedesca al di fuori della Germania.

Anche se come ha sottolineato l’economista di IW Institute Juergen Matthes «Possiamo supporre che permanga una spaccatura tra le poche grandi aziende e la maggioranza delle piccole e medie imprese», restano i giganteschi affari delle prime, che condizionano le politiche governative. «Crediamo nel mercato cinese e raddoppieremo il nostro investimento» ha annunciato qualche giorno fa Roland Busch, l’amministratore delegato di Siemens, l’azienda che sta aiutando a crescere la manifattura avanzata cinese.

Per i grandi produttori di auto tedeschi quello cinese rappresenta il primo o il secondo mercato, dove nel 2023 il gruppo Volkswagen ha venduto 3,24 milioni di veicoli, BMW 825.000, Mercedes-Benz 737.000. Quelli di segmento premium-lusso sono i più esposti a una possibile contromisura cinese nel caso l’inchiesta su “sussidi illegali” lanciata dalla Commissione si concludesse con un aumento dei dazi. Un numero crescente di economisti ritiene che in realtà la lunga luna di miele sino-tedesca sia destinata ad esaurirsi, perché la Cina sta scalando rapidamente la catena del valore e i suoi prodotti – dalle auto ai macchinari – sono diventati più sofisticati, e già fanno concorrenza al made in Germany.

Quello che è certo è che le due economie non sono più complementari come in passato, quando i mercati cinesi accoglievano a braccia aperte la tecnologia e i prodotti tedeschi.

Ma i colossi teutonici continuano a scommettere sulla Cina, a costo di tagliare in patria. Ha cominciato l’anno scorso BASF, annunciando 2.600 licenziamenti e parallelamente l’espansione in Cina. Così si sono mosse anche Bosch, Mercedes-Benz, Volkswagen e ZF Friedrichshafen. Inaccettabile per i sindacati, evidentemente non per il cancelliere Scholz.

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