Uno scandalo al confine tra scienza e policy sta creando imbarazzo alla Fao. Gli autori di due studi scientifici usati dall'agenzia ONU del cibo con sede a Roma in un rapporto uscito lo scorso dicembre hanno chiesto di ritirare il documento. Il motivo? Secondo gli scienziati, la FAO avrebbe manipolato i dati per sottostimare il potenziale impatto dei cambi di dieta sulla mitigazione delle emissioni e l'azione per la crisi climatica. È una storia meno piccola di quello che sembra, e riflette la difficoltà di inserire i sistemi alimentari nella discussione politica sul clima. I cambiamenti climatici vengono ancora trattati come una questione esclusivamente energetica, anche se un terzo delle emissioni derivano dalla produzione di cibo. E gran parte di queste dalla produzione di carne.
Il rapporto Pathways Towards Lower Emissions conteneva le strategie consigliate dalla Fao per la riduzione delle emissioni nei sistemi alimentari. È uscito a dicembre durante COP28 ed era il più importante documento dell'anno per la connessione tra cibo, zootecnia e clima. Tra gli altri, il rapporto si basava sugli studi di due ricercatori, Paul Behrens, dell'università di Leiden, in Olanda, e Matthew Hayek, della New York University. Sono loro due ad aver attaccato la Fao, con una lettera a uso interno, poi diventata pubblica. Behrens e Hayek non hanno riconosciuto i risultati delle loro ricerche nelle valutazioni della Fao, che avrebbe sottostimato il potenziale climatico dei cambi di dieta basandosi su dati che invece suggerivano il contrario. I due studiosi ora chiedono che Fao pubblichi un nuovo documento che rifletta la realtà del consenso scientifico su quanto sarebbe importante promuovere il cambio di alimentazione verso diete più vegetali per ridurre le emissioni di gas serra.

Gli errori

Le discrepanze principali denunciate dagli scienziati sono due. La prima è proprio sull'impatto che il cambio di diete avrebbe sulla riduzione delle emissioni. Secondo il report Fao sarebbe molto basso, tra il 2 e il 5 per cento, ma per gli autori si tratta di un errore metodologico, basato su un singolo studio nel frattempo superato dalla ricerca. Secondo i due esperti (che la stessa Fao usa e cita nel suo report, giudicandoli quindi attendibili) la riduzione del consumo di carne potrebbe essere tra due e dieci volte più impattante per il clima. Secondo Behrens, in alcune nazioni ad alto reddito si può arrivare al 61 per cento. Inoltre, la Fao non ha preso in considerazione le ricerche sul ripristino degli ecosistemi naturali al posto degli allevamenti e sull'impatto che potrebbero avere in termini di cattura della CO2. In un altro documento, la Roadmap della Fao per tenere l'aumento delle temperature entro 1.5°C venivano suggerite ben 120 azioni, ma tra queste non c'era cambiare abitudini alimentari. Insomma, mangiare molta meno carne non è il messaggio che Fao sembra voler lanciare, ma è quello che gli scienziati chiedono.
«Sta diventando sempre più difficile ignorare la storia di omissioni che c'è nei rapporti della Fao sulla zootecnia. Ed è un problema, perché la Fao guida le policy globali su agricoltura e cambiamento climatico», ha commentato Nusa Urbancic, direttrice della Changing Markets Foundation. Il problema è proprio il collegamento tra quello che dice la Fao e le decisioni di paesi e aziende. A commentare su questo è proprio uno dei due scienziati che hanno chiamato in causa l'agenzia Onu, Matthew Hayek. «I gruppi di interesse stanno diffondendo i risultati di questo report Fao, nonostante siano opachi e fallaci, per fare le loro operazioni di greenwashing. La Fao è un'istituzione con grande potere e influenza, e non li sta usando con senso di responsabilità», ha concluso Hayek, che insegna Environmental Studies alla New York University.
Paul Behrens, l'altro studioso che ha chiamato in causa Fao, ha aggiunto: «Il cibo è il principale effetto scatenante di diversi crisi ambientali. Le decisioni prese in questi anni sui sistemi alimentari incideranno sulla possibilità di abitare a lungo termine sulla Terra. Sono sconvolto dal fatto che la più importante voce internazionale su questo tema non rifletta il consenso della comunità scientifica».

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