Da una settimana le notizie che giungono dalla Turchia parlano di incendi, distruzione e morte. Diverse aree del paese sono divorate da roghi difficili da domare che hanno distrutto un’area di circa 100mila ettari e provocato la morte di almeno otto persone, oltre ad aver causato ingenti danni ad abitazioni, allevamenti e al settore turistico.

Le cause di questa emergenza, secondo gli esperti, sono da ricercare negli effetti del cambiamento climatico, ma il governo presieduto dal presidente Recep Tayyip Erdogan non è esente da critiche. Il capo di stato è finito al centro delle polemiche per essersi fatto trovare impreparato nella gestione dell’emergenza e per aver continuamente messo in secondo piano la protezione dell’ambiente. Con risultati devastanti per l’ecosistema e per la popolazione turca.

Responsabilità di governo

Gli incendi che negli ultimi giorni stanno devastando le principali città turistiche delle coste del mar Mediterraneo e dell’Egeo, tra cui Bodrum, Adalia e Marmaris, non sono una novità per la Turchia nel periodo estivo, ma questa volta il paese deve fare i conti con i roghi più devastanti degli ultimi decenni e con la mancanza di aerei antincendio in grado di intervenire. Come ammesso dallo stesso presidente, il paese può contare solo su tre velivoli presi in affitto dalla Russia al prezzo di 1,3 milioni di lire al giorno, mentre i mezzi dell’Associazione aeronautica turca (Thk) arrugginiscono negli hangar per mancanza di fondi.

Dopo un primo momento di categorico rifiuto, il governo è allora stato costretto ad accettare gli aerei e i vigili del fuoco messi a disposizione dagli altri paesi, lanciando contemporaneamente una campagna mediatica in difesa dell’autonomia della Turchia. Su Twitter hanno iniziato a circolare messaggi corredati da hashtag quali #StrongTurkey o #WeDon’tNeedHelp in risposta ai tweet di coloro che chiedevano invece un maggior intervento esterno per far fronte alle carenze del proprio governo.

Il disastro ambientale si è presto trasformato in una battaglia politica. La principale forza di opposizione, il Partito popolare repubblicano (Chp), ha attaccato duramente il presidente e cavalcato il malcontento della popolazione con l’obiettivo di indebolire ulteriormente Erdogan e i suoi alleati. Da mesi i sondaggi segnano un calo dei consensi nei confronti del partito guidato dal presidente a causa del perdurare della crisi economica e l’opposizione sta giocando tutte le carte a sua disposizione per farne scendere ulteriormente il gradimento tra gli elettori.

Il tutto in vista delle elezioni del 2023, che coincideranno con il centenario della nascita della Repubblica turca. Le ultime mosse del presidente e dei suoi fedelissimi hanno poi contribuito ad aggravare la posizione dll’Akp: Erdogan, in visita nella città di Marmarsi, ha lanciato delle bustine di tè ai residenti, mentre un funzionario locale ha affermato che i prestiti per la ricostruzione delle case saranno forniti ad un tasso talmente agevolato da far invidia a chi è stato risparmiato dagli incendi.

Megaprogetti e danni

Con l’espandersi degli incendi, sempre più voci critiche si sono levate nei confronti delle politiche messe in campo dal presidente e della cattiva gestione dei fondi pubblici. Erdogan negli ultimi anni ha puntato sempre di più sull’espansione all’estero del paese allocando ingenti risorse nel settore della Difesa a discapito di dipartimenti come quello Forestale, che ha invece dovuto fare i conti con la diminuzione dei fondi a disposizione. La protezione ambientale, d’altronde, non è mai stata una priorità per il governo guidato da Erdogan, come dimostrano anche i dati.

Dal 2020, il 6 per cento delle foreste del paese non è più classificato come area boschiva ed è stato invece destinato a usi come quello turistico o energetico, incentivandone lo sfruttamento a danno di un ecosistema spesso fragile. Il governo continua infatti a promuovere la realizzazione di grandi infrastrutture o di progetti affidati a compagnie straniere che tengono scarsamente in considerazione l’impatto ambientale, dando spesso vita a movimenti di opposizione dal basso. Un esempio su tutti è la battaglia che va avanti da tempo tra governo e comitati cittadini ed ambientalisti per la costruzione di Kanal Istanbul, il nuovo canale artificiale che dovrebbe collegare il mar di Marmare e il mar Nero. Il megaprogetto, che ha preso il via a giugno, rischia di infliggere gravi danni all’ecosistema dei due mari e di ridurre la disponibilità di acqua potabile di Istanbul, oltre a prevedere il disboscamento dell’area circostante il canale.

La scarsa attenzione all’ambiente è evidente anche nel testo di una legge approvata a metà luglio dal parlamento turco e che consente la costruzione di strutture turistiche in aree boschive fuori dalle zone di sviluppo individuate dai piani urbanistici. La norma, già al centro delle polemiche in fase di discussione in parlamento, è tornata al centro del dibattito pubblico a seguito degli incendi, costringendo lo stesso presidente a intervenire per assicurare ai cittadini che le aree colpite non si trasformeranno in nuovi cantieri edilizi.

Ma le parole di Erdogan sono insufficienti di fronte alla devastazione degli ultimi giorni. Sempre più cittadini chiedono maggiore attenzione alla tutela dell’ambiente e un cambio di passo del governo, il cui gradimento rischia di ridursi ulteriormente a causa di quest’ultima emergenza. La Turchia, tra l’altro, è tra i pochi paesi a non aver ancora firmato gli Accordi di Parigi sulla riduzione dell’emissione di gas serra nonostante le richieste provenienti dalla società civile e l’evidente bisogno di intervenire per far fronte al cambiamento climatico. Fino a oggi Erdogan ha preferito continuare per la sua strada, ignorando gli effetti delle sue politiche ecocide e realizzando un megaprogetto dopo l’altro, ma la natura gli sta finalmente presentando il conto.

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