È passato un anno dall’accordo siglato al vertice Cop27 di Sharm el Sheikh per l’istituzione del fondo Loss and Damage. L’intesa fu salutata come un decisivo passo avanti su uno dei temi più controversi dei negoziati dell’Onu perché da una parte riconosceva l’enorme responsabilità dei paesi industrializzati e ricchi per i cambiamenti climatici, dall’altra la necessità di farsi carico e sostenere i paesi meno sviluppati inchiodati in situazioni di grave disagio proprio per quelle emissioni che loro sostanzialmente non producono e che, invece, pagano ad altissimo prezzo.

Si trattava, finalmente, di un atto di consapevolezza del nord globale e della successiva urgenza, attraverso l’erogazione di fondi, di fare giustizia verso il sud. Un anno dopo, il pessimismo che si respira riguardo un possibile livello finalmente operativo dell’accordo raggiungibile a Dubai nel corso della ormai imminente Cop28 sembra essere il sentimento prevalente.

A Sharm el Sheikh era stato istituito un Comitato di transizione composto da 14 membri dei paesi in via di sviluppo e 10 dei paesi sviluppati che avrebbe dovuto espletare il lavoro meramente tecnico e sviluppare le modalità di erogazione del fondo.

Dopo un anno di colloqui e incontri ufficiali, il fondo resta un vago riferimento, mentre le questioni solo enunciate alla Cop27 sono rimaste in gran parte senza risposta: chi finanzierà questo nuovo fondo? Dove sarà collocato? Chi avrà il potere di gestirlo? E chi avrà accesso ai finanziamenti (e chi no)?

Gli incontri del Comitato sono andati avanti per tutto il 2023, ma alla quarta e ultima riunione di fine ottobre non si è trovata la quadra per nessuna delle questioni più spinose.

La clausola taciuta

Per questo, una ventina di giorni fa è stata convocata una quinta riunione in fretta e furia durante la quale è stato sottoposto ai membri del comitato un testo redatto dai due copresidenti sudafricano e finlandese con una clausola non esplicitata ma chiara: firmate o salta tutto. Tra gli articoli figurava che il fondo sarebbe stato ospitato dalla Banca mondiale, almeno per una fase iniziale.

La firma, quindi, è arrivata, ma le polemiche, talune gigantesche, restano tutte. I paesi depauperati e meno sviluppati del mondo, ad esempio, guardano con molto scetticismo alla Banca mondiale. Intanto perché è un’istituzione a impronta marcatamente “nordista”, con gli Stati Uniti come maggiori azionisti (tradizionalmente il presidente è un americano nominato da Washington, ndr).

Poi perché l’enfasi dell’organismo bancario è posta più sui prestiti che sulle sovvenzioni. Inoltre, come fa ben notare la studiosa Lisa Vanhala in un articolo apparso su Social Europe, la World Bank si segnala per una sostanziale «assenza di sensibilità al clima. I piccoli Stati insulari in via di sviluppo, infatti, tra i più vulnerabili al cambiamento climatico, hanno chiesto di spostare il fondo da un modello donatore-destinatario, con tutti i consueti squilibri di potere, verso una partnership fondata su un impegno condiviso per la protezione del pianeta».
Ma anche i ricchi hanno presentato le loro lamentele riguardo il testo finale.

Gli Stati Uniti, ad esempio, volevano aggiungere l’aggettivo «volontario» accanto alla parola finanziamento. Altri hanno sostenuto che il pool di contributori del fondo dovrebbe essere ampliato per includere alcuni paesi in via di sviluppo, come l’Arabia Saudita, e anche fonti di finanziamento private. A questo punto, la palla passa alle discussioni che partiranno a Dubai tra qualche giorno, ma, con quasi 200 paesi chiamati a raggiungere un accordo, sono in pochi a farsi illusioni.

C’è poi un altro problema che giustamente la Vanhala fa emergere, gli alti costi gestionali di un fondo affidato alla Banca mondiale: «Un membro del consiglio di amministrazione di un altro fondo ospitato dalla Banca mondiale», scrive la professoressa, «ha suggerito che le spese amministrative stanno aumentando. Ciò potrebbe significare che, per ogni 100 miliardi di dollari erogati ai paesi e alle comunità colpiti da catastrofi, la World Bank tratterrà 1,5 miliardi». A ciò va aggiunto che non sarà semplice far accettare che il fondo lo gestisca un’istituzione «che ancora finanzia l’industria del petrolio e del gas».

Così il tempo passa e il timore di un’ennesima assemblea sul clima poco più che autocelebrativa aumenta. Intanto, il Madgascar, uno dei paesi più impoveriti della terra, si erge a ultimo simbolo di crisi climatica in ordine cronologico. La spaventosa ondata di calore che ha colpito l’isola malgascia, la peggiore degli ultimi 40 anni, sta facendo vittime ed esodi ma, come sottolinea il rapporto del World Weather Attribution «sarebbe stata virtualmente impossibile senza il cambiamento climatico causato dall’attività umana». Di certo, non autoctona.

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