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Sim City è un videogame degli anni Novanta, nel quale si poteva creare una città da zero per vederla crescere, un vecchio gioco che i millennial ricordano e che continua a rinascere, epoca dopo epoca, perché era una buona idea, quasi un archetipo del gaming.

In un’intervista, il designer del gioco, Stone Librande, ha raccontato come nel replicare il mondo urbano per una delle versioni più recenti siano riusciti a riprodurre in modo accurato tutte le dinamiche spaziali e sociali di una vera città tranne una: i parcheggi. Perché se avessero dovuto mettere in Sim City la quantità reale di parcheggi che c’è nella maggior parte delle città occidentali, il gioco sarebbe stato noioso e impossibile da godere. È questa la proporzione del nostro spazio vitale che si prendono. Le piccole inesattezze del mondo fossile in cui viviamo. Questa edizione di Areale contiene anche buone notizie, ma partiamo dalla paura.

Lampadine del buio: paura e cura

Cosa fai quando hai paura, nei giorni che tutto è troppo?

Ho conosciuto Matteo Innocenti il pomeriggio prima dell’ultima assemblea plenaria di Cop27. È uno psichiatra ed è uno dei massimi esperti italiani di ecoansia, tema sul quale ha scritto un libro uscito l’anno scorso. Ci siamo scambiati i numeri e promessi di discutere con calma del suo lavoro, e così abbiamo fatto, questa settimana.

Siamo partiti dai punti di rottura personali, il momento in cui apri gli occhi e vedi e quello che vedi ti fa paura. Per il lavoro che faccio, mi sono trovato a collezionare dentro la mia mente tanti punti di rottura delle persone più diverse, perché a un certo punto finisce che me lo raccontano, il luogo, il momento dell’epifania (e io sono felice di ascoltare) (Però forse non conosco il tuo. Qual è il tuo?). Matteo mi ha parlato di un viaggio in sud-est asiatico, nel 2018, un’esposizione non voluta alle fratture del mondo. E poi dei boschi di Vincigliata, sulle colline intorno a Firenze, dove camminava con suo nonno, fotografo entomologico, un ritrattista di insetti. «Ci andavamo la mattina presto, perché gli insetti stavano più fermi nella brina e quindi erano più facili da fotografare».

Una parte del suo percorso di psicoterapeuta specializzato nell’ansia da collasso ecologico inizia quando, tra quel viaggio in Asia e il lockdown, il nonno di Matteo muore e lui torna in quei boschi, per riconnettersi, ritrovarsi, stare bene. Così ha iniziato a strutturare una delle sue cure all’ecoansia, ispirate ai bagni di foresta giapponesi, perché Matteo fa sia percorsi di psicoterapia classica (ci sediamo e parliamo di ansie climatiche) che workshop ed escursioni (in cui camminiamo e parliamo di ansie climatiche).

«Ho iniziato a sviluppare il modello, poi ho iniziato a ricevere richieste». Era un terreno inesplorato, per lui, per i pazienti. «A volte dicevo: tu sei il primo che provo a curare, o il secondo, o il terzo». Un cammino che si costruisce insieme, mappa che nasce insieme al territorio, cose così. Bello.

Quando io ho paura, per esempio, una cosa che faccio è ascoltare la stessa canzone in loop, per molte volte di fila, finché diventa una specie di flusso sonoro indistinto, un groviglio di suoni e parole al quale aggrapparsi e tenersi, l’ultima è stata questa, oppure vado a nuotare.

«L’ecoansia è un’emozione profonda e persistente causata dal fatto che le basi ecologiche della nostra vita verranno a mancare, può essere uno stato di preoccupazione, o di terrore, o di mancanza di speranza nei confronti del futuro. La parola emozione però deriva etimologicamente da accendere, l’ecoansia è anche un motore che accende qualcosa».

La paura è un sentimento politico, è un’emozione che si può trasformare in politica, in azione. Il lavoro di un terapeuta specializzato in ansia ecologica è peculiare, anche perché inevitabilmente condivide col paziente quella stessa paura. «Non c’è niente di irrazionale nell’ecoansia, non è come la claustrofobia, in quel caso il mio compito è provare a razionalizzare, a eliminare una paura non giustificata. L’ansia climatica non si può razionalizzare, può solo essere accettata, trasformata in un’azione propositiva, provando a schivare la paralisi, la rassegnazione, il doomism». È un campo nuovo, con metodi nuovi e anche con un negoziato diverso tra il paziente e il terapeuta, proprio per la condivisione della sensibilità e della paura. «A volte sono i pazienti a terrorizzare me, perché mi raccontano il loro angolo, un angolo che magari non conoscevo, del quale non ero al corrente, come quando ho fatto delle sedute con una veterinaria che aveva lavorato a una tesi sugli allevamenti intensivi. Ne sono uscito a pezzi».

Dal suo osservatorio sono uscite delle cose interessanti, che mi hanno colpito (non sorpreso, ma colpito). L’ecoansia è stagionale, segue cicli, che sono cicli naturali, perché è dura da affrontare d’estate, oppure cicli politici. C’è stato un picco di ecoansia dopo la Cop27.«Le decisioni, o le non decisioni, dei nostri governi generano ondate di frustrazione, di rabbia, che io poi osservo nel mio studio». Questa cosa sta scavando radici nelle nostre menti. Inoltre, l’ecoansia è femminile, la maggior parte delle sue pazienti sono donne. E spesso sono persone giovani.

Ci sono meccanismi di coping che Matteo osserva spesso, nelle sessioni: la fuga, o il bisogno di trasferirsi in alto o in montagna, o la scelta di non avere figli. E poi c’è l’incomunicabilità climatica, che un giorno troverà la sua Notte e il suo Antonioni, «un’enorme parte di questo tipo di paura è la fatica a essere capiti, la fatica di spiegarsi. A volte parlo con persone nella cui vita si è generata una voragine relazionale, magari semplicemente perché hanno cambiato dieta per motivi ecologici o etici».

La paura di sentirsi silenziati può avere solo risposte politiche. Fare un passo avanti nel mondo, quello che vuoi, nella forma che ha senso per te. Anche andare in terapia può esserlo. «È importante che il terapeuta capisca, condivida la paura. Prima di essere curati vogliono essere ascoltati, ci sono persone che, quando iniziano a vedere il problema e si accendono all’improvviso, si sentono come lampadine in mezzo al buio. Si sentono soli più che in ansia».

Un altro meccanismo di coping che Matteo deve affrontare è la frenesia del controllo. «Frutto della struttura comunicativa che per anni ha fatto sentire colpevoli le persone individualmente, per quello che fanno, di quello che sono. Oppure le persone che soffrono di ecoansia a volte odiano gli altri perché non fanno quello che fanno loro, perché non vedono quello che vedono loro. Io mostro loro sempre quanto siamo piccoli rispetto alla Terra, quanto è piccola la Terra rispetto al sistema solare, quanto è piccolo il sistema solare rispetto alla galassia, all’infinità del cosmo». La paura passa anche così, ridimensionandoci, e accettando che soli non ce la possiamo fare, che soli non ce la faremo. Se hai qualcosa da raccontarmi su questo, sono qui. Se hai bisogno di Matteo Innocenti, è qui.

Buoni numeri sulla transizione (per ansiosi e ottimisti)

Le buone notizie di questa settimana arrivano (di nuovo) dall’Agenzia internazionale dell’energia, che si è scelta questo ruolo di voce dell’ottimismo rinnovabile e che ha pubblicato questa settimana il nuovo rapporto Renewables 2022, la fotografia statistica di un mondo in transizione. Ora la guardiamo nel dettaglio ma la possiamo innanzitutto sintetizzare dicendo: la direzione è quella giusta, ora dobbiamo solo accelerare, perché le fonti pulite di energia sono la risposta a una serie di domande diverse: climatiche, economiche, geopolitiche. Serve il progresso raccontato dalla Iea, ma ne serve di più, serve non mettersi di traverso rispetto al futuro, sprecando risorse o ricerca o volontà altrove.

Nei prossimi cinque anni la crescita delle fonti rinnovabili raddoppierà rispetto a oggi: supereranno per la prima volta il carbone come fonte primaria globale di energia già nel 2025 e «ci aiuteranno a tenere viva la possibilità di un aumento della temperatura contenuto sotto 1.5°C».

La prospettiva di crescita è superiore del 30 per cento rispetto a quanto si valutava solo un anno fa. Il 90 per cento dell’espansione della produzione di energia elettrica da oggi al 2027 verrà da fotovoltaico, eolico, idroelettrico (il restante 10 per cento potrebbe venire da follie come quella italiana di trivellare l’Adriatico per quel poco di gas nazionale che c’è). La quota nel mix energetico globale arriverà al 38 per cento: più di un terzo dell’elettricità del mondo tra cinque anni sarà da fonti rinnovabili. La crescita totale sarà di quasi 2400 GW, come se l’intera produzione elettrica della Cina raddoppiasse, un’accelerazione dell’85 per cento.

Succede in tutti i grandi blocchi: in Europa, come risposta alla guerra in Ucraina, negli Stati Uniti, incentivata dall’Inflation Reduction Act, in India, e in Cina, dove il 14esimo piano quinquennale stimolerà da solo la metà della crescita globale.

Nel frattempo nel 2027 la quota cinese nella manifattura globale dei componenti per le rinnovabili (che è altissima e insostenibile) scenderà dal 90 al 75 per cento. L’Agenzia internazionale dell’energia prevede che il fotovoltaico triplichi nei prossimi cinque anni: superi il gas nel 2026 e il carbone nel 2027, crescendo di 1500 GW su base globale. L’eolico raddoppia, e un quinto della crescita sarà di eolico offshore.

Nel frattempo, lentamente (ancora troppo lentamente) declineranno tutti i combustibili fossili: carbone, petrolio, gas. Non è ancora sufficiente, perché c’è un enorme potenziale inespresso, ed è qui che la convenienza economica e geopolitica deve incrociarsi con la volontà politica: la crescita potrebbe arrivare a 3000 GW in cinque anni, se le economie avanzate affronteranno la fatica dell’implementazione (parola chiave di Cop27), soprattutto su due aspetti, i permessi (e quindi la burocrazia, uno dei grandi freni all’espansione anche in Italia) e l’espansione delle reti. Per le economie emergenti, invece, i problemi di policy si incrociano a quelli finanziari: servono soldi, serve finanza climatica, i 100 miliardi del Green Climate Fund, promessi nel 2009, ancora mai completati. Questa forbice tra il reale e il possibile va completata, e, se la completiamo allora, davvero, possiamo passare dal trotto al galoppo.

Il phase-out del Petroliere

«Oserei dire che qualcuno di voi potrebbe aver sentito le voci più stravaganti sui miei piani. Ho solo pensato che li voleste sentire da me. Questa è la mia faccia, non c’è grande mistero. Sono un uomo del petrolio, signore e signori. Ho tanti di quei pozzi che producono migliaia di barili al giorno. E mi piace pensarmi come un uomo del petrolio. Spero che per voi vada bene il mio parlarvi chiaro».

Ho ripensato a questa scena del film Il Petroliere di Paul Thomas Anderson, Daniel Plainview, il trivellatore della California di inizio novecento, interpretato da Daniel Day-Lewis, l’Achab dell’idrocarburo, un film perfetto e magnifico che ripercorre l’antico testamento del capitalismo fossile, e ci ho ripensato perché ho letto la notizia che il Los Angeles City Council ha votato 12-0 la messa al bando delle nuove estrazioni di petrolio e di gas in una città che in alcune zone era una zona di sacrificio della trivella da oltre un secolo, «questa è la mia faccia, questi sono i miei piani, trivellare».

Ci sono oltre 5mila pozzi di gas o petrolio in città, molti dei quali attivi, un settore da 250 milioni di dollari per l’economia urbana di L.A., la sala del municipio è adornata da arte che celebra quell’industria, che ne ha generato la crescita urbana e che nel dopoguerra ha dato lavoro a tanti veterani che tornavano dal fronte. Insomma, è una decisione storica, perché accelera il processo degli Stati Uniti, dilaniati tra ambizione (perché Inflation Reduction Act è un piano ambizioso) e lo status quo (sono pur sempre tra i massimi esportatori di petrolio e gas al mondo).

Non ci saranno nuove licenze e i 5mila pozzi hanno vent’anni di tempo per chiudere. Hanno sconfitto la narrativa fossile, sul business che si perde (ma non parlano mai di costi sanitari) e sull’importazione di petrolio dall’estero che dovrà crescere (non se viene fatto il phase-out dell’auto a benzina o diesel, per esempio, come succederà in California con tempi “europei”). Ed è ovviamente una storia di giustizia ambientale, perché le estrazioni erano soprattutto downtown, West e South Los Angeles, San Fernando Valley, insomma, comunità latine o afroamericane. Succede, ecco. A volte succede.

Fine per oggi, questa settimana ci siamo parlati di Cop27 e attivismo con Fridays for Future Bologna, e mentre mi leggi io sono a Trento alla Libreria Duepunti. Invece la settimana prossima sarò (venerdì) a Busto Arsizio, al Circolo Gagarin, con Samantha Colombo (che ha una newsletter che mi piace molto, Dispacci), e poi (sabato) al Gran Sasso Science Institute a L’Aquila, con Paolo Della Ventura e Gianluca Ruggieri. Magari ci vediamo lì. Se vuoi scrivermi, l’indirizzo è ferdinando.cotugno@gmail.com. A presto!

Ferdinando Cotugno

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