Per gli Stati Uniti la COP27 è partita con tre giorni di ritardo. Durante il summit dei capi di stato e di governo di lunedì e martedì gli americani erano assenti, distratti dalle elezioni di midterm.

Il presidente Joe Biden non ha partecipato (probabilmente arriverà in Egitto alla fine della settimana) e il suo inviato per il clima John Kerry ha atteso di verificare quanto sarebbe stata forte l'onda repubblicana prima di avviare la macchina della diplomazia climatica americana.

Dopo aver appurato che il risultato delle elezioni non mette a rischio il piano per il clima votato al Congresso, è iniziato l'attivismo americano e per Biden si è aperto il fronte Sharm El Sheikh, dove non sarà accolto come un amico.

Sono giorni di conflitto politico al negoziato Onu per il clima, dove si stanno scontrando due visioni opposte.

Per gli Stati Uniti i cambiamenti climatici sono ancora un problema futuro da prevenire trasformando l'emergenza in business.

Per il resto del mondo sono una crisi che ormai è arrivata, con danni e perdite da affrontare con la finanza pubblica dei paesi più industrializzati.

Il problema americano

«Gli Stati Uniti non hanno mai avuto l'approccio giusto per questa crisi», spiega Harjeet Singh di Climate Action Network, sintetizzando i contenuti della rabbia anti-americana a COP27.

«Vertice dopo vertice hanno fatto tutto per indebolire la solidarietà globale, non hanno mantenuto le promesse di aiuti per il clima, hanno evitato che la discussione sui risarcimenti andasse avanti. Lo dico in modo diretto: gli Stati Uniti sono in malafede. La loro visione del clima come business non può rispondere ai bisogni di sei esseri umani su sette nel mondo, nessuna azienda è interessata a ricostruire le case dopo un'alluvione come quella del Pakistan. La storia non sarà gentile con loro».

Per i paesi in via di sviluppo il clima non è solo business, ma una questione morale e di diritti umani: gli Stati Uniti hanno la maggiore responsabilità storica dell'emergenza e devono mettere in condizione il resto del mondo di affrontarla attraverso risarcimenti e fondi per l'adattamento, ambiti dove il business non andrà mai.

L’anti-G20 della Cina

Paul Kagame, president of Rwanda, speaks at the COP27 U.N. Climate Summit, Tuesday, Nov. 8, 2022, in Sharm el-Sheikh, Egypt. (AP Photo/Peter Dejong) Associated Press/LaPresse Only Italy

Il blocco dietro questa tesi si chiama G77, è l'anti G20, ha trovato una guida nella Cina, il fantasma di questa conferenza sul clima. Xi Jinping non c'è, il ruolo dell'attuale principale emettitore di gas serra è fatto di ambiguità strategica, prima economia inquinante ma anche faro dei paesi vulnerabili.

L'attivismo di Kerry è partito da questo fronte, seguendo l'invocazione del segretario generale Onu Guterres, che ha chiesto un patto di solidarietà per il clima favorito da Stati Uniti e Cina.

Kerry ha incontrato l'omologo per il clima Xie Zhenhua ed entrambi hanno fatto trapelare l'intenzione di lavorare insieme. Alla COP26 del 2021  l'incontro e l'inizio di una collaborazione per la riduzione delle emissioni di metano aveva il sapore dell'evento storico. Qui è avvenuto sotto traccia, inevitabile dopo un anno di tensioni. Ma è un segnale positivo.

Non ci sono i soldi

Kerry ha presentato il piano americano per mobilitare la finanza privata e aiutare le economie emergenti a fare le transizioni energetiche. «Dobbiamo dirci la verità, nessun paese, nemmeno gli Stati Uniti, può mobilitare i 2mila miliardi l'anno che servono per portare il mondo a zero emissioni».

Da questa lettura - inoppugnabile - viene il nuovo piano americano, presentato con Fondazione Rockfeller e il fondo di Bezos.

Si chiama Energy Transition Accelerator ed è la replica sull'energia pulita di un mercato che Kerry e Biden sanno aver funzionato malissimo: quello dei crediti di carbonio.

Riassunto del modello a cui si sono ispirati: ogni azione che permette di assorbire emissioni di gas serra (come piantare alberi o rigenerare foreste) genera un credito che può essere comprato o venduto per finanziare progetti in linea col clima.

Bello, sulla carta, ma quel sistema funziona malissimo: poca trasparenza, truffe, conteggi sballati, non ha dato una mano al clima e ha creato solo speculazione.

«Sappiamo che quel sistema ha funzionato male, ma è l'unico modo per attirare capitali verso le energia pulite, per chiudere centrali a carbone e sottrarre ostacoli alla transizione energetica nei paesi in via di sviluppo», ha detto Kerry, che ha promesso controlli rigorosi, massima trasparenza e l'esclusione delle multinazionali di gas e petrolio.

Le reazioni

L'idea, per usare un eufemismo, è stata accolta con scetticismo. Navroz Dubash, coordinatore dei gruppi di lavoro dell'Ipcc (braccio scientifico dell'Onu) ha detto: «Kerry risolve un problema di narrativa politica, ma non è sufficiente, i flussi finanziari che il suo sistema andrà a generare sono imprevedibili e limitati, si rischia di minare tutto il meccanismo dell'accordo di Parigi».

Per Kerry, il meglio che possono fare gli Stati Uniti ora è farsi garanti di un meccanismo che muova montagne di soldi privati.

Per il resto del mondo questo ruolo non è sufficiente, perché i capitali privati non andranno mai lì dove ce n'è più bisogno: adattamento e danni.

È un punto sul quale rischia di spaccarsi tutto il negoziato. È il fronte Sharm di Biden, aperto e traballante. 

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